MOTHER - Pier Costantini
La fotografia collega, indubbiamente, ciò che è profondamente dentro di noi (che non possiamo capire o descrivere) con tutto ciò che ci circonda.
Ho iniziato a fotografare mia madre, dopo aver trovato e letto il suo diario, in cui sono riportati, pensieri, stati d’animo, per stabilire un dialogo trasversale. Uso la fotografia come un ponte, una connessione che mi aiuta ad imparare a conoscerla veramente a fondo, imparo a passare del tempo con lei, imparo ad amarla in modi differenti.
E’ passato molto tempo da quando ho iniziato e la sto ancora fotografando per testimoniare e raccontare il suo percorso, il suo itinerario (come lo chiama lei): “ E’ bello questo itinerario spirituale ed interiore, dove scopro sempre nuove energie che vanno a riempire momenti di sconforto e di fatica, di abbattimento e di delusione”; con questo però racconto anche il nostro rapporto, la nostra storia, per averne sempre piu una ferma consapevolezza e creare un bagaglio di ricordi forti.
Esprimo e visualizzo questa esperienza, trasformandola in qualcosa di illusoriamente lineare e diversificato che è come preferiamo percepire i cambiamenti nel tempo. Non dico che la fotografia possa colmare quel vuoto di parole mai dette tra di noi, ma mi aiuta e passo più tempo con mia madre, parliamo, discutiamo di cose, la fotografo.
Osservo come muta il suo corpo, segnato dal passare del tempo, dal dolore, dalla fatica per un marito/padre su una sedia a rotelle.
Come lei stessa scrive: “Se penso all’età che ho, non penso alla vecchiaia con angoscia; provo un sentimento di tenerezza, nonostante le rughe e le varie fragilità o debolezze del corpo”.
Non è solo fare ritratti a mia madre, in questo lavoro rappresento le situazioni e i momenti della sua vita, parla di lei, ma potrebbe parlare di qualsiasi madre.
Oltre al mio approccio, c’è anche il suo, fisico e metafisico “Ho notato questa dialettica nella vita, che non è solo una teoria filosofica, ma una realtà. La fede aiuta a vivere, proiettati in un orizzonte oltre, pur rimanendo ancorati al presente”.
Questa, una riflessione che mia madre ha scritto sul diario, credo offra un importante punto di riferimento per questo lavoro: “ L’eta che sto vivendo, corrisponde all’autunno, nella natura, che, contrariamente a quanto si pensi, non è l’eta del decadimento; è un luogo comune l’autunno come disfacimento, alberi che perdono le foglie; invece nell’autunno c’è una rinascita, una nuova vitalità, un’energia che diventa meditazione, quiete, tranquillità”.
“Provo un sentimento di gratitudine verso la vita e di serenità; gratitudine per la famiglia che ho avuto, per gli studi che ho potuto intraprendere in collegio, e che mi appassionavano alla filosofia; per la libertà di scelta che ho esercitato; per la mia famiglia attuale.”
MOTHER - FINALISTA PREMIO VOGLINO - ITALY PHOTO AWARD 2019
01.01
From suffering to pride in belonging.
A narration by images, where the author shows for the first time, everyday life in a specific reception center (CAS Canzano, Abruzzo, Italy), dedicated above all to migrant women (including women with children and pregnant women), the dignity of people who go beyond the poverty of places and goods, faces, expressions of pride, joy, serenity, of those who with difficulty and strength want to rebuild a new belonging.
They are on my way to meet new people and new countries.
Migration is certainly one of the most complex issues that characterize our present. The most terrible motivations, natural disasters, conflicts and economic necessity push millions of people to move from their territories and reach, through long, difficult and dangerous journeys, lands of hope.
In integration, things speak, affections, little clues that tell about life.
When we think of migration, we think mainly of men, because this constantly brings us back to the media, but migration has a strong female characterization that cannot and must not be neglected; this misinformation leads to leaving behind millions of women and girls who are already in a difficult condition but also prevents the opportunity for individual and social responsibility that the move could bring.
But while politicians try to understand how these mass movements affect society, economies, security and sustainability, the specific needs of women and girls are being lost in the complexity of the issue. These women, often abused girls, forced to move away from their men, due to contradictory and difficult laws.
The United Nations Population Fund (UNFPA) has identified - in an article published in recent days - five fundamental points that draw international attention to the number five goal of the 2030 Agenda: gender equality and women’s empowerment as a specific goal to be achieved for the entire planet but also as a transversal one if we really want to have a world that starts, in the coming years, towards sustainable development.
“01.01” is a photographic project aimed at reproducing the truth of reality, in accommodation facilities for migrants, refugees and asylum seekers, in the Abruzzo region, a symbol of reception and integration in central Italy.
The title “01.01” is a cry of rebirth and hope, many migrants arrive in Italy without knowing how old they are and in what year they were born, because very often they come from the villages and not from big cities, for this (as a registration procedure) they are registered on January 1st, but they can freely choose the year of hypothetical birth.
This causes, as a consequence, a depersonalization of one’s own reality, of one’s being, but it is also, at the same time, a new starting point, a new way to rebuild one’s life.
The integration process is very long, due to the long registration procedures, medical examinations, residence permits. For the first months of stay, with the first residence permit they have no possibility to work, then with the second residence permit (which could arrive even after one year), they can then start working and integrate in the true sense of the word .
With this new project 01.01, I was finalist at the Voglino 2019 Award and I joined the Italian Collection 2019 (platform dedicated to all the talented Italian authors of our artistic community).
https://www.premiovoglino.com/portfolio-items/pierluigi-costantini-2/
INTRO
Toni Thorimbert
Pier entra in studio, affilato, gli occhi sono attenti e vigili.
I suoi vestiti sono scelti accuratamente anche se sembrano molto casuali.
Mi mostra fotografie che gli somigliano. Belle sono, e precisamente ben fatte: Le pose, calcolate, sono illuminate dal sapiente uso degli strobo, rese seducenti dai toni suadenti del bianco e nero o nella fedele resa del colore di un prodotto.
Ma c’è troppo controllo perché queste immagini raggiungano il mio stomaco, perché l’emozione possa arrivarmi.
L’emozione, la perdita, la vertigine, la paura, il sangue, stanno da un’altra parte, lontano da qui, lontano dal glamour della metropoli e dal business, stanno giù, al sud, a casa, dove il padre, uomo massiccio e testardo, diabetico grave, una gamba amputata, due infarti, lui che dovrebbe mangiare poco e sano, non fa altro che preparare cibo.
Cibo come ossessione, come rivincita, come grido di guerra, cibo come rivolta, cibo come alimento vitale, ma anche lenta e inesorabile sfida al suicidio.
Dove sta sua madre. Donna colta dallo sguardo trasparente, una semplicità che parla di un sapere femminile antico, mai domo, empatico, una persona che dice amore con tutta se stessa, un amore che va oltre a quello che crediamo l’amore sia.
Ed è qui che la fotografia di Pier si arrende, dove nella assoluta imprecisione di foto mezze sfuocate, nei colori sbiaditi delle Polaroids, in un delirio di luci opache o di impressioni troppo sature comincia a vibrare l’esistenza, il sangue a scorrere nelle vene.
E’ qui che le pentole cuociono il cibo, qui vengono vergate a mano, meticolosamente, le ricette, è qui che la madre sorveglia silenziosa lo scorrere di giorni forse contati.
Cibo, famiglia padre, madre.
La fotografia pulsa, si fa cibo anch’essa. Diventa solida, concreta, testimone di un amore cucinato negli anni, incomprensibile forse, ma autentico nella sua tenera ferocia.
Toni Thorimbert, Gennaio 2019
CIBO di Pier Costantini
Questo progetto fotografico nasce da un lungo percorso di ricerca personale all’interno della mia famiglia. Noi siamo in tre: io, mio padre Guerino, mia madre Anna.
Il cibo ha sempre avuto un ruolo importante a casa nostra, mai nulla lasciato al caso, mai un pasto consumato alla buona.
Mio padre è stato educato con i vecchi valori contadini, dove ogni singolo elemento della terra doveva essere rispettato e trattato per quello che era: cibo che dà da vivere.
Mio padre ama visceralmente il cibo, ma nel corso della sua vita, come un beffardo contrappasso, si è ammalato di diabete, una malattia dove l’alimentazione corretta è fondamentale. Ma lui niente, non ci è mai stato attento – come si fa a stare attenti quando si è innamorati?
Il diabete ha quelle due regole basilari che non bisogna mai infrangere: alimentazione controllata e insulina. Basta seguirle scrupolosamente per vivere bene, ma se le infrangi non hai scampo perché il diabete ti logora e ti distrugge dall’interno.
Il grande amore di mio padre per il cibo lo ha portato ad aver sempre più bisogno di insulina, e l’insulina, si sa, distrugge le arterie.
E così ci ritrovammo Guerino in rianimazione per un coma diabetico. Si è ripreso per fortuna, ma di lì a poco sopravvennero due infarti; poi problemi alla circolazione delle gambe, specialmente di una, che andò persa.
Nonostante tutto questo mio padre non si è perso mai d’animo e ha continuato a cucinare, a scrivere ricette sul suo diario e fare conserve, inventandosi addirittura un suo “brand”, Guerino Forever. Forse è un velato desiderio di immortalità o più semplicemente, conoscendo mio padre, è la speranza di non essere mai dimenticato.
CIBO per me parla di radici, di famiglia. Ho deciso di documentare alcuni pezzi della nostra quotidianità, momenti sereni di vita dopo la tempesta.
INHABIT, abitarsi. Abitare un luogo che si riconosce come casa, ospitare la propria identità. Il corpo inizia a rappresentare proprio questo, unico luogo sicuro dove riconoscersi.
Il progetto nasce dalla necessità di fare chiarezza sulla prospettiva sociale che vede due tipi di identità: quella sociale e quella personale.
L’identita’ personale, definita anche individualista, privata e idiocentrica, analizza i diversi processi che attivano gli individui per conoscere se stessi. L’identita’ sociale, e’ definita come la parte del se’ che deriva dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo sociale.
Per realizzare questi ritratti ho scelto l’intimità di casa, come luogo sicuro, non contaminato. Dove ogni persona è libera di essere se stessa.
Troppo spesso la nostra società, assuefatta da modelli sociali stereotipati, accecata dal giudizio sulla mera esteriorità, confonde i due mondi e li mescola lasciando trionfare il clichè ed il luogo comune.
Chi decide di iniziare il percorso della transizione, ha in se una grande consapevolezza del proprio essere, ma allo stesso tempo passa attraverso fasi complesse e psicologicamente stressanti.
La psicoterapia, lunga, durante la quale lo psicologo valuta problemi, traumi non elaborati, nel momento in cui da parere positivo, inizia li la transizione sociale; presentarsi con altro nome ovunque, acquistare biancheria intima diversa, usare bagni pubblici diversi. Infine la transizione ormonale, dove ci si sottopone, appunto, ad una lunga terapia ormonale.
Stiamo vivendo in un’era di grande trasformazione sociale. La trasformazione in atto si basa sul ruolo cruciale dell’intelligenza umana, della conoscenza, della creativita. E’ un cambiamento in corso gia da anni e che continuerà per molti anni ancora. Sta trasformando non solo la nostra societa, ma anche la nostra vita, i nostri gusti e le nostre preferenze, e sta modificando anche la geografia della competizione globale e locale, la conformazione delle nostre citta e delle nostre regioni.
Qui ritratt*:
TRYSHA
EMMA
CRISTINA
TEA
ROBIN
HUMAN MARBLE
Questa serie fotografica si ispira ai grandi maestri del rinascimento (Donatello, Michelangelo, Jacopo Della Quercia, Botero…), i quali hanno rappresentato attraverso l’arte di modellare il marmo, la bellezza e l’armonia di sinuosi e formosi corpi nudi. Fu poi la bellezza femminile ad essere maggiormente apprezzata, considerando che la bellezza del tempo era sinonimo di una corporatura piena e formosa, ma anche atletica e “coraggiosa”.
Assecondo cosi, la mia naturale propensione di rappresentare la bellezza nuda della forma attraverso la precisione di un obiettivo.
Rispondendo alle linee fluide e alle infinite combinazioni di forma che il corpo umano riesce a creare nella sua spontaneità ed immediatezza, fotografo il vero che si realizza davanti ai miei occhi, comprendendo l’importanza del momento che puo essere perduto e non ripetuto.
P E L L E
La vita scivola sulla pelle, si aggrappa, lasciando tracce visibili del- le nostre scelte quotidiane.
La pelle non mente, racconta la tua storia a chi è disposto a leg- gerla ed ascoltarla.
Rughe, seghi d’espressione, ma anche il colore e il tono della no- stra pelle sono ricordi tangibili del nostro stile di vita impressi sul viso e sul corpo.
Allo stesso tempo è però l’ultimo strato del nostro corpo sogget- to alla nostra espressività e profondamente legato alla nostra
parte più intima: le emozioni.
CONFINI
Mi ci sono ritrovato dietro le sbarre, mio malgrado. Le sbarre sono quelle della grata della finestra di casa mia, al pian terreno di un quartiere popolare di Milano.
Un confine imposto e - come tutti i confini - ambivalente. Una soglia che divide e protegge ma che al contempo invoca il desiderio di superarla per abbreviare, non potendola annullare, una enorme distanza sociale.
Una costante dualità tra dentro e fuori, un conflitto tra vuoto e pieno,
tra impossibilità e desiderio di incontrare gli altri, di incrociare i loro sguardi.
La fotografia è l’unico mezzo possibile, l’unico strumento che ho per soddisfare questa mia necessità. Solo la fotografia ora può avvicinarmi alle persone.
C O N F I N I
Un virus arrivato all’improvviso ci ha imposto la condizione più difficile di tutte, convivere con noi stessi.
Ci ha imposto di rimanere nei nostri confini, nelle nostre case, per cui ognuno di noi è stato costretto ad inventarsi una nuova normalità fatta di piccoli aggiustamenti a quella preesistente.
Io questa imposizione la vedo come un’opportunità.
In un tempo di evidenti disuguaglianze la natura ci ha riportato ad una pagina bianca.
Come prima cosa siamo stati costretti a riadattarci allo spazio che ci circonda e ci protegge. Direi una condizione connaturata all’essere umano ma smarrita nel tempo veloce della socialità a tutti i costi che ci voleva ubiqui e onnipresenti.
La mia casa che avrebbe dovuto regalarmi la percezione di un luogo sicuro in realtà mi dava la sensazione di essere in gabbia.
Sentivo un estremo bisogno di uscire senza uscire e la prima cosa che ho fatto è stata guardare fuori dalla finestra. La grata, quel confine di ferro che mi divideva e proteggeva, era la soglia da cui sbirciare nel mondo fuori.
Ho capito subito che quella era una posizione privilegiata, magica, proprio perché ambivalente.
Da lì, da quella finestra interiore, è nata l’urgenza di incontrare l’umanità, che poi è il vero movente di questo progetto, iniziato dopo appena 15 giorni di isolamento.
Dovendo fare i conti con me stesso ho capito, o meglio, ho cominciato ad imparare, che è grazie all’incontro o all’allontanamento dagli altri che ci conosciamo davvero.
Questa è una storia a cui tengo molto, che mi sta insegnando quanto ampia sia la parola “umanità”. E che il singolare, senza il plurale, semplicemente non esiste.
Questa interdipendenza tra dentro e fuori, tra l’io e l’altro, la chiamo libertà.
IN LIMINE
di Francesco G. Raganato
In Limine è il titolo che apre Ossi di Seppia, la prima raccolta di poesie pubblicata da Eugenio Montale.
In latino letteralmente vuol dire “sul confine”, “sulla soglia”, e in senso figurato anche “in casa”.
Una locuzione definitiva, uno statement lo chiameremmo oggi. Quella poesia è una dichiarazione di intenti che descrive senza sbavature la nostra condizione e lascia intendere che ci sia un ipotetico altrove come possibile via di salvezza.
In pochi versi, densi e sintetici, il poeta ligure riflette sulla condizione umana al di qua di un muro metaforico che delimita un giardino, il presente, dove si consumano gli eventi della vita.
Una comfort zone dove tutto è prevedibile perché naturale, e proprio per questo fonte di disagio esistenziale.
Perché? Perché il problema non è cosa c’è al di qua del muro ma cosa c’è al di là.
Al di là del muro c’è qualcosa di sconosciuto, che fa paura, un “fantasma” lo chiama Montale. Qualcosa che “forse” può salvare da una imposta condizione di stasi.
Per questo invita ognuno di noi a cercare una “maglia rotta nella rete”, uno spiraglio da cui evadere e prendere in mano le redini della propria vita.
Sono passati 95 anni dalla pubblicazione di quella poesia e la nostra condizione non è cambiata. Siamo ancora al di qua del muro.
I confini ci definiscono, è inutile girarci intorno, ed è solo con l’attraversamento della soglia che si innesca un processo di trasformazione.
Dentro casa, al sicuro, ci sono ben poche decisioni da prendere.
Guardare la tv o leggere un libro? Fare le pulizie o starsene sul divano? Mandare una mail o no? Non cambia molto.
Questo però vuol dire fare i conti solo con quello che abbiamo e non con quello che siamo.
Quello che abbiamo più o meno è il risultato di un mix accidentale di geografia e alberi genealogici.
Nascere a Milano o in un paesino sperduto del Sud Italia, cambia. Nascere in una famiglia benestante o disagiata, cambia.
Questo è il bagaglio che ci ritroviamo sulle spalle quando nasciamo, uno zainetto che qualcun altro ha impacchettato per noi. I più fortunati si ritrovano bussola, acqua, sacco a pelo e viveri a volontà, altri soltanto un coltellino svizzero e due scatolette di tonno.
Poi c’è quello che siamo. Quello che siamo si misura soglie attraversate, in decisioni prese o rimandate. È nel fare o non fare che definiamo la nostra vera identità.
Questo spesso si traduce nel lavoro che facciamo, in status sociali o relazioni sentimentali.
La meta è sempre la realizzazione personale, il raggiungimento della propria felicità.
Ecco, il Coronavirus ci ha tolto lo zaino e ci ha messo tutti di fronte ad un muro più alto. Ci ha fatto scoprire che la felicità non è più una questione di fortune o scelte individuali, ma collettive.
Il Covid-19 ha spazzato via il concetto del singolo come artefice della propria fortuna. In guerra o in una crisi finanziaria, se sono scaltro, intelligente o fortunato mi salvo.
Oggi non più. Perché la mia salvezza non dipende solo da me, ma dipende da me e da tutti gli altri.
Abbiamo imparato sulla nostra pelle che uno starnuto dall’altro lato del mondo provoca un’epidemia globale. Che quando si dice “siamo connessi”, vuol dire davvero che siamo dipendenti l’uno dall’altro, perché le mie decisioni ormai hanno un impatto anche sulla tua vita, non più solo sulla mia.
E se già era difficile prendere una decisione per sé stessi, figuriamoci prenderla anche per gli altri.
Siamo ancora confinati dentro un muro, tutti assieme. La vita continua a scorrere che ci piaccia o meno, vorremmo cambiarla e non sappiamo come fare.
Quasi tutto come descritto nella poesia di Montale. Con una piccola, sostanziale, differenza.
Che la “maglia rotta nella rete” ce l’abbiamo di fronte agli occhi, non dobbiamo più affannarci a cercarla.
Le nostre case hanno porte e finestre. Da lì entrano la luce, l’aria, i profumi e i suoni. Da lì possiamo vedere il mondo al di là del muro. Un mondo che però non conosciamo più, perché quello che conoscevamo è stato portato via dal virus.
E allora l’unica cosa sensata da fare, per ora, è mettersi in ascolto.
Ascoltare gli altri è un’ottima palestra. Serve allenamento per scalare questo muro e raggiungere la maglia rotta lassù.
Certo in questi giorni sentiamo solo parole di paura, di ansia e di incertezza. Speranze poche. Tutti sentimenti condivisi, non più privati.
Però chiedere ad uno sconosciuto “come stai” o “che farai domani”, in questo momento è un tonico per l’anima. Le risposte le conosciamo già, perché sono quelle che daremmo a noi stessi, uguali, proprio perché viviamo lo stesso identico trauma.
Ma è nella domanda il beneficio, non nella risposta. Per fare delle domande a degli sconosciuti, entrandoci in contatto stando confinati dentro casa è necessario sporgersi da una finestra, allungare una mano, fermare le persone e convincerle a raccontarsi.
In questo scambio è racchiuso il senso ambiguo del confine, perché nello stesso momento lo avvalora e lo distrugge. Con un semplice gesto, come una domanda rivolta da una finestra o la richiesta di una foto, scopriamo che forse il confine non c’è.
Condividere le nostre paure con gli altri serve a prendere le misure e ad arrivare allenati e concentrati al momento più difficile, che non è certo quello di scalare il muro o scavalcare una finestra.
No, la parte difficile è fare il salto subito dopo. Decidere di cambiare. Quello si che fa paura.
Francesco G. Raganato - Text Supervisor and Author
Elementi pregnanti e ossessivamente presenti: l’ambientazione costituita da muri graffiati, crepe, di abitazioni senza età, dove domina l’immobilismo del tempo, corpi umani nudi che guardano verso l’obiettivo enigmaticamente, figure femminili che cercano di insinuarsi, di fondersi o confondersi con i luoghi (le mura stesse, le crepe, il pavimento, le finestre). Pare non esserci una via di mezzo, dunque: il corpo sfuma spettrale sullo sfondo, con il viso spesso nascosto o dissolto più del resto della figura, oppure risuona roboante nella sua cruda fisicità in una stanza molto spoglia.
Il tutto all’interno di uno spazio che, di solito, non si espande molto al di là del suo stesso tempo o degli scorci di interni fatiscenti di un’abitazione. Il corpo è fermo, statico, privo di protezioni nella sua nudità.
Contorsioni sensuali, mai ammiccanti, ma anche pose di dolore o quasi paralizzate; corpi-oggetto in stanze piene di inutili elementi vecchi, rotti o impolverati. È una sensualità intimamente legata alla morte e al dolore, possibile rappresentazione della morte psichica cui si va incontro se il corpo non trova la sua posizione nella realtà, la sua dimensione, se non viene visto per come è realmente.
Il corpo viene acclamato nella sua capacità di sedurre lo spettatore ma, anche, nascosto agli sguardi, sporcato volutamente, reso evanescente. Ritorna poi l’immagine dello specchio, come elemento centrale in alcune foto (assieme alla figura umana): uno specchio che nasconde e rivela al tempo stesso aspetti della scena o della figura che l’obiettivo non riesce a carpire.
Il corpo rappresenta il modo di stare nello spazio, di interagire con esso, di occuparlo. Un modo unico per ognuno che riflette ciò che una persona è col mondo (lo spazio fisico esterno), con gli altri (lo spazio sociale-interpersonale) e con sé stesso (lo spazio privato della propria mente). Il corpo che si muove nello spazio come la mente che si muove in sé stessa, nei suoi meandri cognitivi, nelle sue oscillazioni affettive.
Il modo in cui un corpo interagisce con lo spazio (o lo spazio che ognuno si sceglie come luogo privilegiato di vita) come aspetto speculare del rapporto che la mente ha col proprio spazio psichico, fatto di pensieri, fantasie, impulsi, sogni, volizione.
Più io mi sento a mio agio nel mio corpo e riesco a guardarlo, ad esplorarlo, a toccarlo, più io riesco a interagire col mio spazio, concedendomi gradi di libertà sempre maggiori in esso.
Così, il movimento del corpo nello spazio potrebbe rappresentare la mente che cerca un suo spazio, una sua dimensione; in sostanza, lo spazio che ha la mente, la sua capacità di muoversi in sé stessa.
Se il corpo, nei suoi bisogni primordiali è la base dell’identità, base fisica e radice primaria nella realtà, il volto è l’identità nella sua dimensione relazionale e sociale, quella parte del corpo che noi, abitualmente coperti, presentiamo agli altri.
EDICOLE SACRE
Tra paesaggio ed interiorità. Rettangolari a nicchia, a tempio, insomma di qualsiasi fattezza.
Le Edicole Sacre di Napoli sono molte centinaia, nate come simbolo di devozione privata e popolare. Con il passare dei secoli, sono rimaste inalterate sia per la partecipazione emotiva dei devoti che ne hanno curata la manutenzione e sia una strana abitudine che prese piede nel considerare l’edicola come un punto di riferimento per darsi un appuntamento o per specificare che in zona o accanto era presente un artigiano o una qualsiasi destinazione. Veniva riconosciuta a questa struttura anche un carattere di “eterna sentinella”.
Soprattutto nel Rione Sanità e nei Quartieri Spagnoli, si ritrova una straordinaria continuità di questo culto antico, immagini di Santi e foto di defunti, talvolta adornate da coroncine e fiori. Un’usanza che si perpetua anche nelle case dei napoletani, con piccoli altarini domestici per il culto di parenti e amici che non ci sono più. Il rapporto con la morte per i partenopei è da sempre speciale, un legame tra la fede e la superstizione.
per PERIMETRO Milano e LEGGISCOMODO Magazone
Milano, Piazza XXIV Maggio, uno degli snodi solitamente più affollati della città ha assunto ora una nuova forma silenziosa e tranquilla. Gli uni- ci ad animare e attraversare la piazza sono i riders, per i quali il lockdown non ha costituito un freno all’attività lavorativa, anche se naturalmente con numerosi pro e contro: “c’è troppa gente ora che fa questo lavoro”, lamentano infatti molti di loro. Questo è stato senz’altro un anno di svol- ta per i fattorini del food-delivery, tanti si sono avvicinati al settore pro- prio con l’arrivo dell’emergenza sanitaria, come Youssouf, che racconta: “lavoravo nella cucina di un ristorante, poi hanno chiuso e ho iniziato a fare il rider per continuare a mantenermi nell’attesa di poter tornare al mio mestiere”. Al tempo stesso, per quanto questa strada abbia costi- tuito spesso un’ancora di salvezza in assenza di altre fonti di remunera- zione, si è parlato molto anche dei dispositivi di protezione mancati per larga parte del primo periodo di emergenza, delle insidie degli algoritmi delle piattaforme, e della mancanza di tutele sufficienti per questi lavo- ratori. La strada verso una regolamentazione realmente virtuosa per tutti è ancora lunga ma si può dire che questo percorso abbia quantomeno avuto inizio e che l’attenzione mediatica per il fenomeno sia sicuramen- te aumentata. Comprendere quali sono i volti e le storie di chi si cela dietro questa complessa struttura può risultare altrettanto funzionale a una maggiore presa di consapevolezza rispetto a come venga percepito questo impiego da chi lo svolge ogni giorno.